Aspettare non mi è mai piaciuto.
Quella situazione insostenibile di “non ancora” rispetto a qualcosa che teoricamente c’è (nella tua mente, nella tua agenda, nei tuoi progetti, nei tuoi desideri…) ma che, appunto, ancora non è.
Uno stato di pruriginoso limbo, si chiama attesa e non fa per me.
Vuoto spazio-temporale, non fa per me.
Sono un’organizzatrice nata, sono una tappa-attese io.
Non aspetto: occupo il tempo tra una cosa e l’altra, tra un appuntamento e l’altro, tra un progetto e l’altro.
Colmo la distanza del poi con un subito qualunque.
Urgenza di vedere un risultato, di respirare certezza, di placare i punti di domanda.
Sei forte.
No, sono debole.
Io l’attesa non la reggo, tutto qua.
Non è neanche una questione di noia, scusa dietro cui mi sono rifugiata per anni.
È che io temo tutto quello che non vedo e che non sento, felicemente o dolorosamente non importa, fatemi sentire, fatemi toccare, fatemi agire.
Devo sentire che il controllo è mio, a costo di negarmi risultati che la fiducia e l’accoglienza potrebbero rendere migliori rispetto a quel determinismo con i paraocchi che mi morde la giugulare e mi spinge all’attivazione automatica.
Ho passato tutto agosto a mettere a punto un piccolo progetto professionale semi-nuovo, una sorta di rebranding, mettiamola così.
Poi, a fine settembre, un saggio mi ha detto che in autunno la natura si riposa.
Le foglie cadono, la terra rallenta i ritmi, la stagione è quella della riflessione, dell’analisi e dell’attesa, appunto.
Sticazzi, volevo rispondergli (sempre tollerante la Robyzante): che son due mesi che scrivo mappe mentali, che metto a punto il progetto, che racconto ogni singolo passaggio a Fra per misurarne la coerenza.
Ora scusami tanto, ma io voglio partire in quarta: fare, brigare, realizzare. Non aspettare.
E poi ho aspettato.
Non lo so il perchè.
Potrei dare la colpa al turbinio delle (altre) cose da fare, al desiderio di un diverso confronto, a una fastidiosa ma insistente mancanza di chiarezza… o forse era, una nuova voglia: quella di non cedere a quel cazzone di entusiasmo superficiale che ogni tanto mi fa partire per la tangente stile razzo impazzito.
E diciamocelo, sarà stato pure che il saggio era saggio davvero, e mi ha inchiodata con ragionamenti che parlavano di alberi, radici, terra.
Alchimia.
L’essenza delle cose, i ritmi della vita.
Sarà stato che, in un incontro di formazione aziendale, il saggio non ha citato le regole del più moderno management ma la giudiziosa, e a me cara, madre natura.
Ho atteso e oggi quel progetto ha tratti nuovi, nuova consapevolezza, maggior concretezza.
E a essere sincera i progetti in gestazione sono due, diversi ma ugualmente importanti.
Ho parlato con chi ha saputo farmi vedere oltre, ho letto, ho osservato, ho portato una tisana a mia nonna, ho rubato come un artista (leggete questo libro, è utile e fonte di suggerimenti preziosi qualsiasi cosa facciate).
Non ho avuto fretta.
E adesso sto decidendo.
Ma siamo ancora in pieno autunno, e io ancora non ho fretta.
Esploro curiosa questo nuovo modo di costruire che sfrutta le stagioni: è tempo di ascoltare, di quietarsi, di mangiare le fette biscottate fatte in casa con la marmellata, quella preparata a fine estate. Perchè ad aspettare, non è neanche così male (di tanto in tanto).
Perchè il vuoto non è mai davvero vuoto.
E l’attesa a volte è dolce, e a volte ti sorprende pure.
Sono i 9 mesi a farti madre, mica il concepimento.
La ricetta che vi passo non è farina del mio sacco, come un’artista (anzi come un’allieva) ho seguito gli insegnamenti di uno dei miei riferimenti della panificazione: Paoletta di Anice e Cannella.
Nessuna modifica, è stupenda così com’è.
Avrete delle fette fragranti e delicate, meno dolci rispetto alla mia ricetta precedente che trovate qui.
Provatele, sono facili e riescono.
Fette biscottate di Paoletta
Ingredienti:movie Beyond Skyline download
500 gr di farina 0
75 gr di zucchero
5 gr di sale
12 gr di lievito fresco o 4 di quello secco
225 gr di acqua
1 albume
4 cucchiai di olio di semi (io girasole)
1 cucchiaino di malto d’orzo
Per spennellare prima di cuocere:
1 tuorlo
3 cucchiai di latte
Come si fa…
- Sciogliete il lievito e il malto nell’acqua (Paoletta suggerisce di iniziare con 210 gr e casomai aggiungere il resto al bisogno, l’assorbimento dipende dalla farina): fate riposare 4 o 5 minuti.
- Impastate tutti gli ingredienti (io in planetaria) escluso il sale: dovete ottenere un impasto mediamente morbido.
- Aggiungete il sale qualche minuto prima della fine della fase di impastamento (circa 20 minuti in tutto): otterrete un impasto bello elastico.
- Fate riposare circa 30 minuti a temperatura ambiente coperto con pellicola.
- Create 3 pezzi, sgonfiate e date una forma arrotondata. Lasciate riposare altri 10/15 minuti.
- Schiacciate, arrotolate stretto formando dei filoncini e posizionateli dentro a forme da plumcake da mezzo litro (questo è un passaggio mio, Paoletta non ha usato stampi).
- Spennellate con la miscela di tuorlo e latte e lasciate lievitare per circa 1 ora a temperatura di 28°circa (corno con luce accesa).
- Prima di cuocere pennellate di nuovo e infornate a 180/200° per circa 45 minuti, dopo 30 minuti, se la superficie è colorita bene, coprite con carta forno e abbassate la temperatura a 180°.
- Fate raffreddare su una gratella
- Dimenticatevi dei filoncini fino al giorno dopo ben coperti da un telo di cotone, lasciateli possibilmente a temperatura fresca, 18°/20°. O comunque nel luogo più fresco della casa
- Dopo 18-24 ore affettate i filoni, spessore di 8 mm circa, e passate in forno caldo le fette a tostare a 160°/180° (secondo il vostro forno) per circa 50/60 minuti.
- Devono dorare bene, ma soprattutto, asciugarsi benissimo.
- Fate raffreddare le fette tostate in forno semiaperto, e, una volta fredde, conservatele in scatole di latta: durano un bel po’.
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