Disclaimer: questo è un post lungo e pieno di ammissioni di una che si sta stancando di fare la Wonder Woman.
È un post che mi è costato fatica: avrei potuto solo pensarle queste cose, che la consapevolezza è già una grande cosa, ma un impegno preso pubblicamente ha più valore e io credo sia arrivato il momento di cambiare.
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Sono stanca!
Non sono senza energie ma sono stufa.
Non lo so se siano i 5 anni di freelenciaggio, i 4 da mamma, i quasi 40 con la sindrome acuta da se-non-lo-faccio-io-non-lo-fa-nessuno… fatto sta che sono stanca.
Ho voglia di prendermi una vacanza.
Da me stessa.
PARLIAMO DI VACANZE
Le persone normali vanno in vacanza, e ci vanno per riposarsi.
Ho guardato agli ultimi 4 anni di vacanze estive e mi è venuto il sospetto di aver sbagliato qualcosa.
Troppo corte, troppo skyantos, troppo da riempire di tutto quello che non riesco a fare nel resto del tempo, troppo inframmezzate da lavoro fuori orario di lavoro.
Il problema non è la vacanza in sé ma la presunzione che basti andare via qualche giorno per fare ferie e non accorgersi che, invece, la testa non sta facendo niente di diverso da quando è a casa: pianifica, organizza, gestisce, accudisce, elabora, decide, sceglie, inventa…
Il corpo non è da meno… anzi, nel mio caso forse dorme peggio del solito e si rafforza nell’essenzialità (cibo a parte, che va ben tutto ma io in vacanza magno!!!).
Certo, la vita zingara mi piace, amo il west e la libertà che ti regala e continuo a pensare che il riposo nasca dentro la possibilità di fare cose che piacciono.
Ma forse sto invecchiando, o forse sto solo imparando, perché sono arrivata alla conclusione che il riposo nasca anche dentro all’ozio e al relax, dentro alla comodità e fuori dal “dover fare”.
E inizio a pensare anche che ozio e relax non possono essere solo uno stato mentale, hanno bisogno di condizioni fisiche e di tempo.
È UN PROBLEMA MIO
E non è solo una questione di lavoro: che se sei freelance non stacchi mai, che lavori anche dopo cena e nei weekend, che non puoi mai davvero dimenticarti del lavoro, che non puoi mai davvero ammalarti, che non puoi nemmeno andare in maternità…
No, non è solo il contrappasso della libera organizzazione dentro la libera professione (che poi con due figli vorrei rivedere un pelo il concetto di libera organizzazione).
È il mio modo distorto di prendere qualsiasi cosa.
È la tendenza a voler riempire ogni spazio di cose e di attività, senza mettere limiti al fare, per dimostrare che ce la posso fare e che, in fondo, sono davvero figa a fare tutto quello che faccio.
Ammissione: sono affetta dalla sindrome del “faccio-tutto-io-faccio-da-sola-faccio-di-più-faccio-meglio-faccio-veloce-guarda-come-sono-brava-e-non-toccare-che-lo-rovini” (per gli amici sindrome da Wonder Woman)
Chi ne sa direbbe che qui dentro ci sono ben ammalgamati il perfezionismo, l’horror vacui e il bisogno di controllo, il tutto condito dal timore del giudizio altrui e dalla necessità di conferme (ditemi che sono brava, ditemelo dai!!!).
È una dipendenza.
Qualcuno si è proposto di aiutarmi rovinando tutte le torte che faccio, “È per allenarti ad accogliere l’imperfezione” mi ha detto. Interessante approccio, ma è una terapia troppo estrema, io sono per l’omeopatia, grazie lo stesso, TVB.
AMMETTERLO È IL PRIMO PASSO
Il secondo è impuntarmi per andare in campeggio (l’alternativa è lavarsi nei torrenti e fare pipì nei boschi).
Il terzo è iniziare già adesso a preparare il terreno per l’agriturismo dell’anno prossimo… con piscina e mezza pensione please.
L’ho accennato a Fra e deve ancora riprendersi dallo shock (è che lui è giooovane!).
Il quarto e il quinto in realtà sono trasversali e riguardano il fare pace con le aspettative e il rinunciare.
LE ASPETTATIVE
Ho scoperto una bella cosa:
le aspettative dentro cui sono così brava a restare intrappolata sono raramente quelle degli altri e molto spesso le mie.
Una ragnatela in cui cado come una mosca ma che ho tessuto da me medesima.
È facile nascondersi dietro a frasi come “se non lo faccio io non lo fa nessuno” (una delle mie preferite in casa), il fatto è che ci piace pensare di essere sempre più bravi e soprattutto essenziali, ci piace pensare che il cielo resti sù perché lo teniamo sù noi.
“Se così non fosse, a cosa servirei e chi mi vorrebbe?”
La risposta mi ha sempre spaventata ma avrebbe dovuto spaventarmi di più la domanda.
Il pensiero di esserci, di essere amata, accettata, voluta, considerata, apprezzata, cercata per quello che faccio o non faccio è assurdo.
Come lo è il pensiero che solo nel fare e nel riempirmi la vita di attività troverò la risposta su chi sono davvero.
Paura di fermarmi e sentire il vuoto.
Anche se vuoto non è, è che bisogna tendere l’orecchio e affinare la vista, all’inizio…
È che volerci bene è più difficile che raccogliere un “brava” dall’esterno e a noi (a me) piace la strada più facile: ditemi che sono brava, ditemelo dai (così me ne convinco anch’io).
RINUNCIARE
È un verbo che non mi piace. Diciamo pure che lo odio.
Cioè, se siamo io e Fra che arrampichiamo in Dolomiti e inizio a temere di morire perché, da scemi che siamo, abbiamo scelto l’unica via che nessuno vuole mai fare, selvaggia e solitaria e pure un po’ marciotta, allora di solito sono io la prima dei due che propone la ritirata, questo genere di rinuncia mi sta bene. Ha a che fare con la sopravvivenza.
Però in generale, pensare di dover fare a meno di qualcosa, mi provoca un giramento di ovaie il cui risultato è un nervosismo da premestruo alla 10, con riporto di 2.
Perché io voglio tutto.
E il tutto, lo voglio subito.
Tutto e subito, croce e delizia di tutta la mia vita. E anche tanto, il tanto dove lo mettiamo?
Io voglio lavorare, correre, impastare brioche, essere una buona mamma, fatturare tanto, regalare del tempo, uscire con gli amici, andare in montagna, leggere, usare la pasta madre, preparare la Trans d’havet, mettermi lo smalto, organizzare feste, fare progetti con Fra, rimproverare Fra -che lascia sempre tutto in giro-, cambiare la disposizione dei mobili di casa, uscire di casa sempre depilata, fare attenzione alla lallazione di Giona -perché con Ettore l’abbiamo saltata e siamo dovuti andare dalla logopedista-, pulire e rassettare, portare Ettore a teatro, decolorarmi i baffi, scrivere sui blog, preparare la colazione ai miei uomini perché fa molto famiglia del mulino bianco e poi perché credo faccia parte dei miei doveri di donna (sono una falsa femminista, lo so), che poi se fosse così in quelli di Fra, di doveri, ci dovrebbe essere di sturare quel cazzo di lavandino della cucina ingorgato da mesi, giusto?
Insomma, come faccio a rinunciare a qualcosa?
No davvero, sto pensando di sfruttare di più i bar per la colazione, e sui blog scrivo pure troppo poco… lo smalto ecco, quello potrebbe passare facilmente da 3 volte l’anno a zero, e sul resto come la mettiamo?
Forse la risposta è: la smettiamo!
Smetterla.
Smetto, io.
Io smetto…. brrrrrrr, le unghie di un gatto sulla lavagna mi fanno meno i pelo d’oca sulle caviglie.
Rinuncio a fare qualcosa.
Insomma un po’ me ne sbatto pure… che vista così suona un po’ meglio.
Comunque sì, è quella roba lì: lasciar andare e iniziarsi all’arte antica del cazzeggio
O quantomeno abbandonare la pretesa di fare sempre tutto, subito e bene.
Io lo dico, poi non so precisamente come si fa, credo servano un divano comodo e una TV…
È pur sempre un inizio.
E per la gioia di qualcuno ho pure rovinato involontariamente la base della cheesecake per la festa di compleanno di Ettore e Fra… ma sono zen, ciccioculocaccamerda sono proprio zen! 😉