C’è sempre un modo diverso di fare le cose, un modo diverso di viverle e di affrontarle.
Anche quando pensiamo di no. O quando preferiamo di no.
Questa è la storia di un computer che si è bevuto il mio cappuccino, di un reset, di un zaino leggero e del vento.
INIZIAMO: LA TRAGEDIA
Il periodo è abbastanza intenso e l’abbastanza è ben dichiarato dalle mie occhiaie, da un leggero tremore dovuto ai tanti caffè e poco sonno e da quell’esuberanza tipica di chi ha passato il segno. “Sei fatta di lavoro” mi ha detto Nadia a un evento, subito dopo aver confermato che sì, si vede.
E io lo giuro, colma di consapevolezza e di mindfulness, con il pieno di buon senso e di lucida razionalità, l’avevo già capito e avevo deciso di agire per modificare la situazione: togliere, eliminare, ridurre. Che questa non è vita.
Insomma i buoni propositi abbondavano, anche qualche azione concreta. Ma io resto io.
E ad ogni cosa che toglievo ne aggiungevo due.
È così che ho capito la differenza tra energica, ottimista, perseverante e imbruttita.
Ecco, io ero imbruttita.
Fino a venerdì mattina.
Venerdì mattina la tragedia!
Di quelle che a raccontarle passo pure per idiota ma così è.
Venerdì io avevo una tabella di marcia serrata e già meditavo di alzarmi presto sabato mattina per approfittare del fatto che i bimbi dormivano dai nonni e continuare a lavorare.
Ed è pensando a questo, con un brivido di eccitazione al pensiero che il giorno dopo avrei potuto scrivere un CV intero, che mi siedo alla scrivania e… rovescio tutto il cappuccino sopra il Mac.
E lui muore. Andato senza neanche un gemito.
A niente è servito il primo intervento mio e di Maria per scolarlo del liquido dolciastro.
Inutile anche la corsa al centro di assistenza.
Mi ha lasciata dopo 5 anni di onorato servizio, tanti documenti, file salvati e pochissimi backup…
Già, perché la freelance imbruttita è anche pirla.
Ora, una a questo punto della storia una si sente in diritto di esternare del sano turpiloquio o di versare quel mare di lacrime che si era tenuta in tasca per i momenti bui.
E sì, ho iniziato dalla prima e mi sono fermata a un passo dalla seconda.
Poi sono uscita dal centro assistenza e sono andata a comprare un regalo per Maria, la mia collega che da poco ha comprato casa. Mi sembrava un bel modo di impiegare del tempo che si era magicamente liberato.
Rientrata in ufficio ho lavorato con 4 computer diversi, di 4 persone che per un po’ mi hanno ceduto il proprio.
Il giorno dopo ho acquistato quello con cui sto scrivendo ora.
È bello, va che è un piacere e le dita si muovono leggere come i pensieri che, non chiedetemi perché, improvvisamente si sono quietati.
È successo sabato, quando hanno decretato il decesso e staccato le macchine. “Lo mandiamo a Milano per cercare di recuperare i file dal disco fisso? le costerà 1000€”
No grazie, non sono per l’accanimento.
E però era quello ciò che stavo facendo: mi stavo accanendo.
Testa bassa, mai mollare, mai dire di no e avanti con i paraocchi.
Quando il mio computer è volato nel paradiso dei Mac io ho compreso che stavo facendo ciò che sconsigliavo pubblicamente agli altri: stavo applicando la perseveranza ai mezzi e non all’obiettivo.
Insistevo, ecco cosa facevo. Ci davo dentro e continuavo a ripetere (Fra ve lo confermerà): ancora due mesi, ancora due mesi e poi molla. Come quando sei in bici su una salita fatta di tornanti e pensi: “adesso molla, ancora un po’ e molla, dopo quel tornante molla…” e invece non molla mai per una schiappa dei pedali come me.
E quando ho capito che mi stavo accanendo, quando ho realizzato che avevo perso fior fiore di slide, libri, documenti, immagini, foto… in quell’esatto momento mi sono sentita leggera. Libera.
Libera di ricominciare, di ridisegnare, di inventare e uscire dagli schemi.
Libera di usare immagini diverse, percorsi differenti, approcci nuovi (che già da un po’ stavo sperimentando nella formazione a dire il vero).
SOLO BAGAGLIO A MANO
Ho letto di recente un libro meraviglioso che consiglio a tutti, uno scrigno di riflessioni stupende, di quelle che ti spettinano con infinita dolcezza, si intitola Solo bagaglio a mano, di Gabriele Romagnoli.
Un inno alla vita leggera e alla leggerezza come stile di vita, che nulla ha a che spartire con la superficialità.
Ecco uno dei brani che preferisco:
“Se resti nella stessa casella, stesso quartiere, lavoro, gruppo familiare, quel gran tiratore che è il destino avrà più agio nel prendere la mira. (…) tendo a credere al ragazzo di Kigali, e quindi a consigliare rapidi e frequenti spostamenti.
Farlo con molte valige strapiene è un’impresa proibitiva.
Cosa possiamo eliminare? Per cominciare, le certezze. Quelle definitive e solide, quindi più pesanti, quelle assolute: scaricarle pensando che invece tutto è relativo.”
Ecco. Per me era assoluta, solida e pesante la certezza che per lavorare bene bisognasse restare dentro i solchi e se possibile, farli più profondi.
Ma poi il computer si è bevuto il mio cappuccio e io ero senza backup, quale occasione migliore per ricominciare?
E diciamocelo? Chi di noi non avrebbe voglia di rompere qualcosa per poter resettare e ricominciare?
A PROPOSITO DI BAGAGLI E CERTEZZE DA ABBANDONARE
Leggerezza e vuoto sono le mie parole mantra del 2020. Due imprese titaniche per me ma sono partita benino…
Ho cambiato lo zaino di lavoro. Un’amica ha pensato di regalarmene uno di bellissimo ma molto meno capiente e strutturato del mio.
Il mio era uno zaino che conteneva gli anni.
Dentro c’erano gli entusiasmi, le lacrime, i ricordi, la fatica, i successi, le incertezze e pure i tappi di alcune bottiglie speciali che non volevo lasciar andare.
Lasciar andare è un mio problema. Separarmi da qualcosa, pure un tappo di Bellavista e il ricordo di quella bella serata, mi risulta difficile.
Quando arriva lo zaino nuovo capisco che dentro ci sta solo il computer, due astucci, un quaderno e i cavi.
E improvvisamente mi rendo conto che è tutto quello di cui ho bisogno.
Oggi viaggio leggera e mi sembra impossibile aver portato quel peso fino a poche settimane fa.
MI CHIEDI DEL VENTO
Io non lo amo, mi spettina e mi rende difficile il respiro. Se sono in spiaggia la sabbia alzata dal vento mi pizzica, se sono in quota il vento che sferza la neve mi spaventa e mi irrigidisce, in città alza la polvere e sporca la macchina. C’è un’unica situazione in cui amo il vento ed è quando lo sento soffiare ma io sono protetta in casa, e lui sbatte ma niente, manco uno spiffero.
Ma questo è il periodo in cui le certezze vengono abbandonate e i pensieri indugiano su visioni diverse dalle proprie, per esplorare e trovare un modo nuovo. Un modo nuovo di fare formazione, un modo nuovo di pianificare il lavoro, un modo nuovo di caricare lo zaino e un modo nuovo di guardare il vento.
Se non avessi letto le parole che seguono non avrei forse ammorbito il mio giudizio sul vento.
Se non avessi rotto il computer…
Se non avessi ricevuto uno zaino nuovo…
Per dire che sì, le risorse sono dentro di noi, il cambiamento ci appartiene come possibilità sempre e comunque, ancor di più quando pensiamo che non sia possibile. Ma il catalizzatore è necessario. E spesso, i migliori catalizzatori sono di carne e ossa, hanno mani e piedi, uno stomaco e il pancreas… e ci sorridono, ci stimolano, ci sussurrano frasi belle o ci passano la carta vetrata. Oppure ci regalano un libro, uno zaino, un biscotto senza sapere l’effetto che farà.
Questa che segue non l’ho scritta io, l’avevo copiata da qualche parte tempo fa trovandola bellissima. La ripropongo qui perché la prossima volta che soffierà il vento io uscirò e lascerò che mi avvolga, che mi spettini, che mi stropicci. Lascerò che mi corra tra le gambe, che mi spinga da dietro, che mi rimbalzi addosso o che si infili tra i vestiti. Perché sto lasciando andare l’idea che il vento scuota e sto accogliendo quella che il vento abbracci.
“Fuori soffia un vento forte, e tu mi chiedi perché mi piace il vento.
Potrei rassicurarti con gli abbinamenti di parole più consolidati: vento di passione, veloce come il vento, soffio di vento, mulini a vento, vento in poppa.
Potrei provare a inventare per te i motivi più facili: se io fossi vento potrei giocare coi tuoi capelli, accarezzare il tuo viso, o girarti attorno fino ad essere chiuso in un cappotto; farti volare leggera, o d’estate inturgidire il tuo seno sfiorando la camicetta troppo leggera, troppo leggera per l’aria che tira; di notte bussare alla tua porta, o agitare la tua gonna.
Potrei prendere a prestito frasi collaudate: “conosco un posto nel mio cuore dove tira sempre il vento”; “quei giorni perduti a rincorrere il vento, a chiederci un bacio e a volerne altri cento”; “se ti tagliassero a pezzetti il vento li raccoglierebbe”.
Potrei tenerti sveglia con un domanda di un proverbio tibetano: dov’è il vento, quando non soffia?
Proverò invece a dirti che il vento mi piace perché arriva all’improvviso, e arriva da lontano; così riconoscerai la mia curiosità.
Ed è forte quando soffia, così coglierai il mio antagonismo.
Il vento non lo vedi ma c’è, come un amico. E qui cogline la mia lealtà.
Non lo afferri, ma lo senti, come un amore. Cosa vuoi cogliere, qui?
È libero il vento, come un cane che sceglie di rimanerti accanto, anche con le porte aperte, anche in mezzo ad un prato. Cogli la mia fedeltà?
Ma non tenere niente di tutto ciò, perché non puoi chiudere il vento in un recinto, costringerlo in una definizione, limitarlo in un sentimento.
È leggero e giocoso, come la corsa di un bimbo d’estate.
È instabile, incostante e allo stesso tempo incessante, capace di disturbarti per giorni, non curante. Un guascone, un malandrino.
È drammatico e distruttivo se vuole, più spesso severo e benevolo, come un padre.
Se porta pioggia, sale o neve scava solchi attorno agli occhi, come fossero tatuaggi di una esistenza per la quale ne è valsa la pena soffrire.
Se sei in barca va domato. Se sei in montagna va lasciato passare. Se soffia in città pulisce. In un bosco suona con gli alberi musiche sinistre.
Il vento è luce e limpidezza.
Di notte si sente di più e la mente è un vortice di storie fantasiose .
Poi ad un certo punto tace. Improvvisamente. Non cala o svanisce, lui tace. Quando smette di soffiare, quando tace è come se piombasse di nuovo tutto il peso di una gravità che il vento agita, solleva, rinnova, regala.
Per tutto questo il vento mi piace. Mi dona qualcosa che non ho.
E tu mi chiedi perché mi piace il vento. Non lo so, ma quando tace, aspetto che torni.”
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