Domenica scorsa ho fatto la pizza, ma non la mia solita pizza.
Avevo acquistato un pacchetto di farina, pensavo fosse la 0 per pizze e focacce e invece era un preparato… sì, di quelli già addizionati di sale e lievito.
Lievito istantaneo peraltro, che è una contraddizione in termini: è come dire Rosi Bindi figa, Paperon de Paperoni generoso, patatine fritte dietetiche, io alta, Fra ordinato e così via…
Guardavo quel pacco da giorni, incapace di credere che fosse finito impunemente nel mio carrello.
Perché è così, inizi con un preparato per la pizza e ti ritrovi a mettere in tavola i sofficini… quanto mi piace fare la foodsnob ogni tanto.
Comunque domenica Ettore mi ha chiesto la pizza che io di solito impasto religiosamente il giorno prima.
Ma ho voluto accontentarlo e ho deciso di sperimentare l’infausto acquisto.
Che poi in fondo non è vero che sono snob, davvero.
Solo perché non compro agglomerati animali non ben definiti, impanati con briciole di pane dell’85 e fritti nell’olio residuo di una petroliera non significa che io sia snob.
Ho impastato, steso, condito, cotto, sfornato, assaggiato e…
CHE MERDA RAGAZZI!!!
L’unico soddisfatto era Ettore e per un attimo ho pensato che me l’avessero scambiato in culla all’ospedale.
No ma davvero uno schifo totale: salata all’inverosimile, lievitata appena appena, nervosa al centro, cotta male (perché non lievitata) e con un gusto che mi ha rimandata indietro di almeno 25 anni: eccoci lì, io e la Elena Quadri, nella sua cucina microscopica a impastare la pizza Catarì.
Ve la ricordate vero??
E non ci pareva neanche tanto male, anzi.
La farcivamo con ogni ben di dio e le regole della lievitazione all’epoca erano un po’ come le nostre conoscenze sul sesso: poche e ben confuse. Ci affidavamo alle istruzioni sulla confezione insomma, orgasmi e biga sono arrivati molto tempo dopo.
Comunque quel salto nel passato mi ha fatto ricordare tutte le schifezze che mangiavo da ragazzina, quando cucinare mi piaceva ma tra me e la cultura gastronomica c’era la stessa distanza che c’è tra me e una terza di reggiseno… abissale!
Io e la Quadri sperimentavamo ai limiti della legge.
Credo esista un reato codificato per la ricetta che sto per darvi, e potete anche inorridire ma io serbo ottimi ricordi della pasta condita sciogliendo un cubetto di dado in padella (non mi ricordo se vegetale o classico, di sicuro non era biologico), una volta che era disfatto si aggiungeva un bricco di panna, se ben ricordo a lunga conservazione, che quando devi farti del male o lo fai seriamente o non cominci nemmeno. Si ammalgamava il tutto e ci si condiva le mezze penne.
Sana no ma saporita e glutammatosa come poche.
E restando sulla pasta, quella condita col “verdurin” l’avete mai assaggiata? Era la specialità di mia nonna, che sul concetto di pasta al dente ha sempre incontrato grosse difficoltà dovendosi confrontare con la bocca sdentata di mio nonno.
Comunque il verdurin, come lo chiamava lei, veniva spremuto direttamente sugli spaghetti, diluito con dell’olio e irrorato di grana come se piovesse.
E aveva il suo perché, a partire dalla praticità (e sì, io me ne sparavo un po’ anche direttamente in bocca).
Il top però erano gli spaghetti col ketchup, converrete con me che gli spaghetti col ketchup sono l’apoteosi.
Pure a Ettore piacciono (sì, in fondo è mio figlio).
Che poi mia mamma si era pure inventata la ricetta del ketchup fatto in casa per condirci la pasta, funzionava più o meno così:
olio (ça va sans dire) sul fondo della pentola, passata di pomodoro, zucchero, aceto e sale. Il tutto in proporzioni variabili secondo il gusto personale, cioè qb, cottura di qualche minuto e voilà, Cracco per me può chiudersi dentro il suo bagno a sperimentare nuove modalità d’uso dello scalogno.
Capitolo uova.
Noi avevamo le galline e pochi soldi quindi la fonte proteica preferita erano le uova, con una media di 6/8 a settimana ciascuno: non perché le mangiassimo ogni giorno ma perché quando fai le uova a casa mia ne vanno due a testa.
Un uovo da solo è come l’aperitivo senza patatine, come le autoreggenti senza elastico, come una ceretta senza parolacce… insomma un uovo da solo non funziona.
Quindi le uova all’occhio di bue erano sempre due, questo era l’assioma 1.
L’assioma 2 era che le uova strapazzate sono il primo passo verso l’omosessualità e io abitavo in una famiglia allargata composta all’80% da uomini, in un’epoca in cui l’omofobia andava di moda come le spalline e i jeans a vita alta. Quindi le uova erano due e rigorosamente all’occhio di bue.
Le varianti di cottura invece erano le seguenti:
- metterci sopra formaggio a fette che si scioglie in cottura, l’effetto filante è tanta roba
- infilare sotto a ogni uovo una fetta di salame o soppressa, per un gusto rustico e tipicamente invernale
- infilare sotto ogni uovo il suddetto affettato e aggiungere sopra il formaggio che si fonde, per affrontare la salita dell’Eiger in manichette corte.
Scoprii tardi uova, speck e patate e continuo a considerarla una preparazione light.
Per quanto riguarda i dolci invece una porzione della mattonella al burro di mia nonna Vittoria (quella del verdurin per intenderci) non ti farà scalare l’Eiger ma di sicuro non devi preoccuparti di cosa preparare da mangiare per i 4 giorni seguenti. E servirà una settimana abbondante agli spazzini di Siamo fatti così per togliere lo strato di grasso dalle arterie, però vuoi mettere??!
Io non ho mai avuto il coraggio di farla, mangio la sua a occhi chiusi, senza pensare che le proporzioni sono 100 di burro, 100 zucchero a velo e un tuorlo rigorosamente non pastorizzato, io butto giù e godo.
Per chi volesse provarla le bagne per i biscotti sono due: caffè e alchermes+latte, e si alternano chiudendo tutto con una spolverata importante di cacao amaro. I biscotti sono gli Oro Saiwa, chiaro vero?
Veniamo alla carne e a quando il veganesimo non era ancora stato inventato, epperò c’era la Pressatella.
Noi non si comprava la Pressatella della Simmenthal, era troppo di marca e comunque la Simmenthal ci faceva schifo per filosofia famigliare, perché aveva la gelatina e una pubblicità decisamente ingannevole.
Davvero… quando apri una scatoletta di Simmenthal ti senti preso per il culo infinite volte come dice Ettore, perché la carne non c’è e al suo posto c’è qualche briciola animale in mezzo a un agglomerato di gel molliccio e sballonzolante.
Quindi noi si mangiava sta orgia di animali morti e pressati comprando la sottomarca (ve l’ho detto, se c’è da farsi del male servono professionismo e coraggio) e aprendo la confezione con l’aggeggio che vedete qui sotto e che era incollato al culo della suddetta scatola.
La scottavamo in padella, a fette, perché arrostita perdeva un po’ la consistenza da gatto morto. Solo a pensarci rabbrividisco eppure non posso rinnegare di essere cresciuta anche con quella roba lì.
Ma in fondo non stupisce che la pressatella a casa nostra andasse alla grande se pensate che la colazione della festa, quella che succedeva solo poche volte l’anno, quella che “mangiatevele voi le brioche della pasticceria”, consisteva in crackers Doriano, salati in superficie, con burro e marmellata fatta in casa. Che poi il burro non andava spalmato, altrimenti il crackers si rompe, il burro andava distribuito a pezzetti.
Ma tanto il cracker si rompeva lo stesso, già dentro il sacchetto.
Potrei continuare citando esperimenti culinari fatti agli scout ma lì si trattava di sopravvivenza, ne più ne meno:
- il liofilizzato andava alla grande durante i campi mobili e mi sono sempre chiesta se avessero creato questi primi piatti in busta solo per gli scout, perché mi pareva impossibile che qualcuno potesse davvero farsi un risotto alla milanese in quel modo (a casa mia abbiamo origini veronesi, il risotto ci sta un po’ a cuore insomma).
- c’era il pane azzimo cotto sul fuoco, attorcigliato a un palo privato della corteccia, che non si cucinava mai del tutto dentro e quindi mangiavi la crosta che si formava, poi cucinavi ancora, mangiavi la crosta, cucinavi ancora e via così fino a raggiungere lo spiedino di legno, stile kebab per intenderci
- c’era la banana cotta nelle braci dentro la carta stagnola con la cioccolata a coprirla tutta che se eri come me, un pelino stitica, poi non cagavi per una settimana,
- c’era la pasta (s)cotta in acqua non bollente perché a farla bollire era sempre un’impresa e alla fine era fame e anche voglia di mangiare prima degli altri, che c’era la gara a chi mangiava prima e io neanche ero competitiva… quando mai?!
- e poi c’era la polenta pasticciata.
La polenta pasticciata era obbligatoria alla fine della settimana di convivenza, la sera che inviti anche i genitori per raccogliere fondi con cui finanziare il campo estivo.
Il concetto è facile e l’effetto fa molto girone dell’inferno: fai la polenta come da istruzioni del pacchetto, prima che sia cotta ci butti dentro un bastimento di formaggio misto tagliato a cubetti, una decina di scatolette di funghi scolati, non troppo bene, dall’olio di conservazione e tutti gli avanzi della settimana di convivenza che stazionano in frigo (si accettano pezzi di panino con la nutella secca, i culi del salame, i due ultimi cetrioli del vasetto Zuccato, le Dixie in avanzato stato di decomposizione, lo sciacquo della scatoletta di tonno). La polenta pasticciata va servita molto morbida, effetto lava per intenderci. E se non fai l’Eiger comunque in cima al Bianco ci sali abbastanza agevolmente dopo che l’hai mangiata, sempre che tu non finisca all’ospedale.*
Altre cose?
Credo di aver fatto un outing che mi sconfessa come foodblogger per le prossime 10 vite e chiudo dicendo che a me piace la panna montata in barattolo sparata direttamente in bocca, non ho mai comprato e mai comprerò il Tavernello e il sushi devo ancora capirlo!
*quella della polenta pasticciata l’ho un po’ romanzata, lo dico per chi è genitore di scout e sta per ricevere un invito alla cena di autofinanziamento. Davvero ho esagerato, lo sciacquo della scatoletta di tonno non ce lo mettiamo mai!
Il preparato per la pizza con lievito istantaneo ascoltate me: non compratelo mai, è il male, peggio della pasta fredda!!
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